Ormai è passato più di un mese da quando ho finito di leggere Sostiene Pereira, di Antonio Tabucchi.
Ci sono arrivata un po’ tardi, forse.
A dire il vero penso che siano i libri a scegliere il lettore. I libri sanno quando è il momento di farsi leggere. E Sostiene Pereira mi è capitato tra le mani al momento opportuno.
Avevo bisogno di ispirazione. Cercavo qualcosa che mi desse la forza di uscire dall’apatia dove ero rimasta incastrata e mi spingesse a mettere il naso fuori dalla porta.
E Pereira mi ha dato quella spinta. Lui, lo stanco annoiato pesante Pereira, che saliva le scale a fatica con la camicia inzuppata di sudore, mi ha fatto capire che posso scegliere. E che scegliere significa uscire dalle tranquille mura di casa e mettersi in gioco. Perché, come diceva suo zio, letterato fallito:
la filosofia sembra che si occupi solo delle verità, ma forse dice solo fantasie, e la letteratura sembra che si occupi solo di fantasie, ma forse dice la verità.
E oggi Pereira mi manca. Vorrei conoscere una persona come lui, vorrei averlo come amico, vorrei potermi sedere al Café Orquídea e bere una limonata mentre il cameriere ci racconta le ultime dal mondo.
Sì, mi manca. Provo quella
grande nostalgia, di cosa non saprei dirlo, ma è una grande nostalgia
Forse, devo smetterla di vivere nel passato; ho finito il libro ormai da un mese e mezzo e se avessi davanti a me il dottor Cardoso senza dubbio mi direbbe:
se lei continua così diventerà una sorta di feticista dei ricordi, magari si metterà a parlare con…
…la copertina del libro.